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martedì 19 aprile 2011

Arbiter Elegantiae

AVVERTENZA: Questo testo non ha per davvero la pretesa di essere una bibbia. Bimbi, rubate pure l'articolo per i vostri loschi scopi scolastici, ma sappiate che è il frutto di ragionamenti (peraltro non necessariamente condivisibili) di una persona che ha una conoscenza parziale, dilettantistica e laterale della questione. Se poi la maestra vi interroga su Quo Vadis? e prendete 4 potete sempre reclamare. In ogni caso se prima del furto ci ringrazierete saremo felici come fringuelli.






Vennero giorni di grande caldo, e notti così soffocanti, come non se n'erano avute fin allora, l'aria stessa sembrava satura di sangue, di pazzo furore e di delitti. E a quell'eccessiva misura di crudeltà corrispondeva, da parte delle vittime, una misura uguale di desiderio di martirio; i seguaci di Cristo andavano volenterosi alla morte, e la cercavano persino, finché non furono raffrenati dai severi ordini dei loro superiori. 


Non è semplice stabilire chi fosse Petronio, se abbia scritto o meno il Satyricon, quando sia vissuto esattamente, se sia il cortigiano di Nerone e molto altro. Il testo migliore che parli del Misterioso è negli Annales di Tacito, e lo descrive come un uomo che sinceramente avrei voluto incontrare. Un uomo che, incalzato dal despota alla morte, volle comunque fare a modo suo, recidere le vene del braccio, fasciarle, e concludere la sua vita in un tripudio di lusso e sollazzo, fra poesie leggere e battute salaci. Sbeffeggiando non poco la lunghissima morte di Seneca, che per la debolezza non riuscì a farsi zampillare il sangue per bene dalle ferite e dovette recidere anche le vene delle gambe, tentò di assumere della cicuta ma non riuscì a deglutirla, infine si immerse nell'acqua calda per favorire il flusso, ma essendo una morte lenta e non essendo mai svanita la sua eloquenza, continuò a dettare molte pagine ai servi. 
Una vita, quella di Petronio, sicuramente da giocoliere, in bilico fra complotti, paranoie e un tiranno al limite della schizofrenia, ma non so dire quanto felice. Si dice anche che infine abbia voluto spezzare i sigilli per non nuocere a nessuno da morto, non prima di aver sbugiardato la corte e il principe, lo ricordo, matricida, infanticida, probabilmente incestuoso perché volle o riuscì a congiungersi con la madre, efferato assassino, squilibrato pazzoide e pessimo poeta. 


So che il popolo mi spaccia per pazzo, ma non lo sono ancora, cerco solo di diventarlo.

Sai che condannai a morte mia madre e mia moglie, soltanto perché desideravo offrire alla porta di un mondo ignoto il sacrificio più grande che un uomo potesse offrire?


Possiamo a ragione ritenere superata l'immagine di Nerone commosso e patetico sulle soglie di Roma teso a cantarne con la cetra la bellezza in fiamme, ma abbiamo anche sufficienti motivi per detestarlo. Come tutti i potenti incerti ebbe bisogno di una corte serrata intorno al suo ego smisurato, ma diffidò sempre di tutti, e non amò veramente nulla.

Per un lettore del nostro secolo è impossibile scindere la figura di Petronio nella sagoma delineata da Tacito, nei frammenti di uomo descritti da altri scrittori (Plinio, Plutarco), nell'autore che sgorga ogni tanto dal Satyricon e infine nel Maestro di Quo Vadis? di cui ci siamo innamorati tutti. 



Il corteo degli spetti che seguiva Cesare, aumentava ogni giorno di più.

Quo Vadis? è un'opera grandiosa (e non è un pensiero mio solo, ma è valso un Nobel all'autore) e complessa, scissa in due fuochi ugualmente splendenti. Il polo pagano è la triste bellezza del tramonto di un impero e il polo cristiano è la fulgida grandiosità di un popolo non più ancorato ai propri sensi ma che accetta questa vita solo in virtù di un'altra. Questo è un libro che svelerà la vostra anima. Alla fine della storia o sarete un Petronio languido, amante della musica, della poesia e delle arti, morbido come una camelia, curato, aristocratico, arbitro d'eleganza, o sarete un redivivo Vinicio, esausto, redento, sopravvissuto, armonioso, amante dell'acqua, dell'aria e dell'anima, l'uomo che vinse il toro inferocito, e che vincendo venne scagliato in un'esistenza di attesa di rivedere più da vicino la Luce.

Il Petronio di Sienkiewicz mi ha spezzato il cuore, a suo tempo, eppure doveva morire perché il mondo vedesse la luminosità di una nuova aurora stagliarsi sulle vallate dei pagani. 

Petronio è stato l'emblema di un mondo inabissato, crudele e spietato, pieno di contrasti, di sangue, di morte, di dolore, di roghi, di congiure, di guerre e di nebbia, ma anche di divinità piantate nella terra più nera e più grassa, di fasti e di ambrosia, di banchetti, di nobili e di arricchiti, di dolcezza, di pace dei sensi, di corpi unti che si strusciano fra loro, tempo di messi e di riti, di folle e di giubilo, di arti, di lirica, di leggerezza, di miele. 


Quando cominciarono a bruciare le case in tutte le direzioni, ho udito io stesso delle voci gridare: «Morte a coloro che salvano!».

E ho sofferto davanti alle innumerevoli pagine continue in cui era narrato l'incendio di Roma in ogni sua sfumatura di colore, in estasi di fronte all'oro, al rosso, al porpora di cui non si intravedeva la riga dell'orizzonte, ma tramonto e fuoco erano carnalmente congiunti. Non si poteva sperare che il mondo potesse resistere a una simile potenza che - come tutti i nuclei di energia più sfavillanti - fu anche autodistruttiva.



Roma aveva fatto pazzie per lungo tempo, la città conquistatrice del mondo sembrava pronta a farsi a brani per mancanza di una testa sana che la governasse.

La leggerezza profonda del Petronio di Sienkiewicz cozza malamente contro lo squallore di quella famosa cena di Trimalcione, dove forse Petronio stesso descrive i ghiri e le pernici, i saltimbanchi, le frustate ai servi troppo lenti, i doni pacchiani, le mogli secche che - vivendo per l'oro e la gloria - aggiogano grassi uomini stupidi e ne costituiscono la vera fortuna. E ancora, i banchetti nella sale del Potere, dove i finti-colti, ricchi e annoiati, si solleticano la gola per vomitare torrenti di cibo e vino e ricominciare ad accoppiarsi furiosamente e a godere di altre primizie. 
È un romanzo che vi farà venire voglia di essere cristiani e vi farà credere che fino a oggi tutti vi abbiano mentito su cosa significhi amare l'unico dio, ma allo stesso tempo vorrete tuffarvi anche in un mare piatto che conserva sul fondo Roma come una novella Atlantide, bella fino ad essere dolorosa ma morta.





E così passo Nerone, come una bufera, come un uragano, come una fiamma, come passa la guerra o la morte; mentre la basilica di Pietro governa ancora, dal colle Vaticano, la città e il mondo. Vicino all'antica Porta Capena, c'è anche oggi una cappellina con l'iscrizione, un po' logorata dal tempo: «Quo vadis, Domine?».

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Voi siete sempre i miei preferiti,ma questo è un pò lungo e scritto piccolino e non lo leggo. Ripubblicatelo a puntate,come un novello Elisa di Rivombrosa.

Francesca ha detto...

Caro anonimo, sono molto dispiaciuta di aver scritto piccolino. Mi rendo conto che questo post scoraggerebbe anche uno con il debito in latino che deve essere interrogato su Petronio. Metto una X per un mondo senza pretese: X!