AVVERTENZA: Questo testo non ha per davvero la pretesa di essere una bibbia. Bimbi, rubate pure l'articolo per i vostri loschi scopi scolastici, ma sappiate che è il frutto di ragionamenti (peraltro non necessariamente condivisibili) di una persona che ha una conoscenza parziale, dilettantistica e laterale della questione. Se poi la maestra vi interroga su Quo Vadis? e prendete 4 potete sempre reclamare. In ogni caso se prima del furto ci ringrazierete saremo felici come fringuelli.
Non è semplice stabilire chi fosse Petronio, se abbia scritto o meno il Satyricon, quando sia vissuto esattamente, se sia il cortigiano di Nerone e molto altro. Il testo migliore che parli del Misterioso è negli Annales di Tacito, e lo descrive come un uomo che sinceramente avrei voluto incontrare. Un uomo che, incalzato dal despota alla morte, volle comunque fare a modo suo, recidere le vene del braccio, fasciarle, e concludere la sua vita in un tripudio di lusso e sollazzo, fra poesie leggere e battute salaci. Sbeffeggiando non poco la lunghissima morte di Seneca, che per la debolezza non riuscì a farsi zampillare il sangue per bene dalle ferite e dovette recidere anche le vene delle gambe, tentò di assumere della cicuta ma non riuscì a deglutirla, infine si immerse nell'acqua calda per favorire il flusso, ma essendo una morte lenta e non essendo mai svanita la sua eloquenza, continuò a dettare molte pagine ai servi.
Una vita, quella di Petronio, sicuramente da giocoliere, in bilico fra complotti, paranoie e un tiranno al limite della schizofrenia, ma non so dire quanto felice. Si dice anche che infine abbia voluto spezzare i sigilli per non nuocere a nessuno da morto, non prima di aver sbugiardato la corte e il principe, lo ricordo, matricida, infanticida, probabilmente incestuoso perché volle o riuscì a congiungersi con la madre, efferato assassino, squilibrato pazzoide e pessimo poeta.
Possiamo a ragione ritenere superata l'immagine di Nerone commosso e patetico sulle soglie di Roma teso a cantarne con la cetra la bellezza in fiamme, ma abbiamo anche sufficienti motivi per detestarlo. Come tutti i potenti incerti ebbe bisogno di una corte serrata intorno al suo ego smisurato, ma diffidò sempre di tutti, e non amò veramente nulla.
Per un lettore del nostro secolo è impossibile scindere la figura di Petronio nella sagoma delineata da Tacito, nei frammenti di uomo descritti da altri scrittori (Plinio, Plutarco), nell'autore che sgorga ogni tanto dal Satyricon e infine nel Maestro di Quo Vadis? di cui ci siamo innamorati tutti.
Il Petronio di Sienkiewicz mi ha spezzato il cuore, a suo tempo, eppure doveva morire perché il mondo vedesse la luminosità di una nuova aurora stagliarsi sulle vallate dei pagani.
Petronio è stato l'emblema di un mondo inabissato, crudele e spietato, pieno di contrasti, di sangue, di morte, di dolore, di roghi, di congiure, di guerre e di nebbia, ma anche di divinità piantate nella terra più nera e più grassa, di fasti e di ambrosia, di banchetti, di nobili e di arricchiti, di dolcezza, di pace dei sensi, di corpi unti che si strusciano fra loro, tempo di messi e di riti, di folle e di giubilo, di arti, di lirica, di leggerezza, di miele.
E ho sofferto davanti alle innumerevoli pagine continue in cui era narrato l'incendio di Roma in ogni sua sfumatura di colore, in estasi di fronte all'oro, al rosso, al porpora di cui non si intravedeva la riga dell'orizzonte, ma tramonto e fuoco erano carnalmente congiunti. Non si poteva sperare che il mondo potesse resistere a una simile potenza che - come tutti i nuclei di energia più sfavillanti - fu anche autodistruttiva.
È un romanzo che vi farà venire voglia di essere cristiani e vi farà credere che fino a oggi tutti vi abbiano mentito su cosa significhi amare l'unico dio, ma allo stesso tempo vorrete tuffarvi anche in un mare piatto che conserva sul fondo Roma come una novella Atlantide, bella fino ad essere dolorosa ma morta.